Critica
a cura di Franco Speroni
….di Naturali Esperienze
Perché mai si dovrebbe credere che l’oggetto è gettato di fronte a noi come fosse qualche cosa di distinto e separato, chiuso in una sua forma da contemplare? È solo un’aberrazione percettiva, conseguente alla censura dei sensi, che ci fa distinguere il soggetto dall’oggetto mentre, al contrario, essi si confondono continuamente nella percezione, creando un terzo elemento che è l’ibridazione dei due precedenti. Parto da questa considerazione così, apparentemente, lontana, perché le opere di Marco Appicciafuoco abitano un crinale dove il quadro, la scultura, la composizione polimaterica, l’oggetto d’arredo, nella sua accezione manierista di monumento miniaturizzato, si confondono tra loro rendendo insufficienti le distinzioni paradigmatiche alle quali siamo stati abituati. E’ vero che da molto tempo, come è noto, l’opera d’arte è un oggetto ansioso e questo proprio perché risulta sempre più inadeguato ogni tentativo di distinguere le cose in base al genere, dal momento che gli oggetti, così come i soggetti, sono elementi fluidi dentro processi culturali aperti. Anche le opere di Appicciafuoco rivelano la loro natura ibrida ed emotivamente densa. La Transavanguardia agli inizi degli anni ‘80, movimento al quale spesso è accostato il lavoro di Marco, è stata, usando le parole del suo principale mentore, Achille Bonito Oliva, non un riflusso ma “come un flusso che trascina dentro di sé molte cose, che scavalcano il semplice ritorno al privato ed al simbolico”. Bisogna tenere presente questo aspetto specifico del flusso nella Transavanguardia, per passare dalla concezione di quel movimento chiuso nella storia della critica, ad uno sguardo più ampio che ne colga il processo culturale di cui quel fenomeno è stato parte. Quel flusso appartiene, al di là delle apparenze di superficie, alla svolta epistemologica sintetizzabile nella rivoluzione digitale, e quindi nella memoria come archivio e database, nell’ibridazione interculturale che è riconducibile in gran parte alla rivoluzione comportamentale inscritta nella fluidità della connessione, nell’effervescenza delle contaminazioni tra i saperi: rivoluzione sensoriale, quindi, che ha riconfigurato anche l’utilizzo di tecniche artistiche tradizionali come la pittura o la scultura.
Nel lavoro di Marco, i saperi delle tecniche artigianali insieme alla percezione del suo territorio non determinano strutture chiuse e nostalgiche ma catalizzatori emotivi che trasformano la storia vissuta in qualche altra cosa che sta accadendo, come ci fosse una metamorfosi in corso. Per questo si può parlare di oggetti emozionali. L’argilla, il grès, il vetro, l’acciaio, la luce, che Marco usa, danno ai suoi lavori aspetti mutanti che stimolano vie di fuga laterali, al di là di ogni chiusura simbolica dentro significati predeterminati. La stessa eco delle ceramiche di Castelli, così presenti nella sua biografia, non rivive come ennesimo omaggio folclorico al passato, ma ripropone il senso che quelle ceramiche hanno avuto nella cultura rinascimentale. Le ceramiche come le stampe sono state, infatti, vettori di diffusione di iconografie e stili, quindi degli strumenti efficaci di contaminazione culturale. Seguendo tale scia profonda, l’artigianalità di Marco si fonde con l’intenzionalità concettuale dell’arte contemporanea capace di parlare del proprio tempo, rinviando continuamente ad altro. Questi oggetti emozionali parlano infatti un linguaggio glocale perché le materie e le immagini usate suonano come parole che vengono dall’eco delle montagne abruzzesi che tutt’ora Marco abita ma la sintassi è propria di una lingua ibrida: quella necessaria per esprimere il sentire complesso del nostro presente.
Light Flowers
“Oggetti emozionali” avevo chiamato in un’altra occasione le realizzazioni di Marco Appicciafuoco. Oggetti che abitano un crinale in cui quadro, scultura, arredo nella sua accezione manierista di monumento miniaturizzato, design… si confondono tra loro rendendo insufficienti le distinzioni paradigmatiche. Ibridazioni tra materiali e tecniche esecutive, grès e led luminosi, argilla e vetro, acciaio e luce. Materiali che fanno convergere tradizioni e nuovi scenari. Tecniche “primitive” legate alla terra, come la manipolazione dell’argilla, che si uniscono a quelle proprie dell’acciaio e alla smaterializzazione della luce, all’energia. Da qui derivano insiemi inediti che nelle loro pieghe rinviano a tracce differenti, segnano percorsi. Sono oggetti “impliciti” spesso con risvolti non immediatamente visibili perché “contengono” altro. Altri colori, altre materie che sembrano cresciute naturalmente all’interno. Sono materie significanti più che espressive poiché nella loro differenza di texture, di luce, di riflessi c’è il senso della convergenza di elementi che si compongono in maniera nuova, al di qua della carica espressiva del soggetto. Materie “trovate” quasi fossero readymade, e che, alla fine, sembrano unirsi spontaneamente per la necessità di formare un micromondo diverso, pur mantenendo ciascuna la propria differenza qualitativa.
Riparto da lì, da quella sensibilità, dunque, per un flusso convergente che genera le forme. Flusso di storia e memoria e insieme di osservazioni sul presente fatte attraverso questi oggetti versatili. Un insieme che a suo tempo ha identificato un aspetto importante di quella sensibilità che prese il nome di Transavanguardia al cui universo emozionale, sicuramente Marco attinge. Quasi un “movimento”, allora. Oggi, al di là degli schemi e dei brand, in un momento storico in cui i processi culturali sono caratterizzati dalla costruzione di uno stile personale, di un modo di essere, rispetto alle norme condivise – stile versus moda, per semplificare – quel flusso di storia/memoria assomiglia ad una svolta epistemologica metabolizzata. Il brand che ha indicato azioni di gruppo si è capillarizzato in tanti comportamenti diffusi e differenziati tanto da opacizzare ogni definizione stabile. Si è fatto costruzione di mondi immaginati tendenti ad evidenziare identità individuali che si connettono sulla linea d’onda di sensibilità condivise più che su poetiche stabilite. Anche l’oggetto-opera d’arte è il processo di questa tendenza per cui la “responsabilità” (termine forte e ambiguo, tutto da comprendere nelle varie declinazioni) può essere il collante di una pluralità di modi di essere che si incontrano, ad esempio, sul valore delle leggerezza, light appunto: sul valore del progetto in quanto costruzione di forme inedite effetto di sensibilità per la convergenza, sulla sperimentazione come interazione e ibridazione continua, sulla costruzione di ecosistemi come nuova declinazione di quanto Joseph Beuys aveva definito “scultura sociale”. L’arte dunque in quanto, beuysianamente, scienza della libertà, si incontra con la natura non tanto in nome di un segreto occulto da scoprire o di un equilibrio originario da proteggere ma nel nome della libertà di ricerca, della fatica del metodo, della creatività dell’inedito, della coscienza dell’approssimazione e della tensione al superamento del limite. Ancora beuysianamente c’è un’essenza “politica” della natura che si trova nelle sue forme di adattamento e di resistenza, nella complessità delle strutture frutto di lunghi processi conflittuali.
Light Flowers visualizzano tutto questo. Sono oggi il frutto di un metodo che unisce la sensibilità per quelle materie che sopra indicavo e per l’energia che le tiene insieme. Sensibilità per le forme di sopravvivenza che a loro volta generano ecosistemi funzionali ed efficienti. Sensibilità per la scoperta nelle forme della natura di possibilità metamorfiche che richiamano forme culturali che abbiamo conosciuto… Vediamo meglio. Questi fiori luminosi o leggeri, stando alla ricchezza semantica dell’aggettivo “light”, sono ispirati dai cactus. In particolare dall’Astrophytum Miriostigma, una pianta capace di sopravvivere in condizioni assai difficili e dalla forma elementare composta, molto simile ad una stella, come dice il suo nome latino. Marco elabora questa forma di base divisa in cinque lobi costruendo delle stelle di gres che si “accendono” grazie a led luminosi colorati che solcano le congiunture dei lobi quasi come, nella pianta originale, quei puntini più chiari che bordano le creste del cactus. La letteratura scientifica non ha meglio chiarito la funzione di questi elementi ipotizzando una loro utilità per mimetizzare la pianta in ambiente roccioso nei confronti di animali fitofagi. Dunque questa “stella” è un concentrato di sopravvivenza faticosa e di adattamento. Una forma necessaria che è sintomo di un ambiente ostile nel quale trovare una forma significa organizzare l’esistenza. Forme lobate che, a loro volta, “richiamano” come ha osservato Marco, il modulo dell’orinatoio-fontana di Duchamp. Readymade nato dalla mutazione, a cui alludeva, dentro una ricca serie di rimandi, la stessa firma R. Mutt, omofono al verbo francese “muter”: trasferire, mutare, cambiare luogo e posizione… diventare altro, quindi.
Il cactus è una “pianta del deserto”, come Leopardi definisce anche la sua Ginestra e che, come la ginestra, è la forma necessaria di uno stare insieme faticoso ma radioso e anche per questo ostentatamente differente dall’ostilità del tempo/natura che la circonda. La Ginestra leopardiana era una metafora estetica di un conflitto politico tra luce e deserto, tra aspirazione ad una vita civile e coesa che resiste in una forma elegante e luminosa, come quella del fiore, e l’aridità ostile e minacciosa del territorio-mondo circostante. Che è poi il conflitto tra modi di dire e di essere. Metafora dell’arte equivalente di un modo di essere diverso: l’eleganza semplice della ginestra è segno forte di opposizione. Qualcosa di molto simile oggi potremmo dire alla contrapposizione tra Bellezza e Inferno, secondo Roberto Saviano.
Light Flowers come indica il nome appartengono all’ibridazione di mondi. Transizioni tra materie dure e luce. Gianni Ranaulo (Light Architecture, testo & immagine, 2001) ha utilizzato il concetto “light” nell’architettura per descrivere quei progetti per cui l’architettura deve essere “una lama che taglia la società nei suoi diversi aspetti (cinema, moda, pubblicità, cultura), deve seguire l’andamento del mondo e inventare nuove forme di intervento”: un’architettura metamorfica e del mutamento, dell’ibridazione che supera l’ideologia dell’immortalità della pietra e del monumento. La retorica dell’eterno e del “per sempre”. Light Flowers, alimentati da pannelli solari sono piante naturali/artificiali che uniscono l’energia del sole con il gres e i led luminosi. Sono “piante” d’appartamento e, volendo, installazioni pubbliche che trasformano l’oggetto di pietra in un oggetto vivo e cangiante. Leggeri, dunque, ma resistenti dentro un contesto ancora dominato dalla rigidità della pietra.
Nelle sue Lezioni Americane, Italo Calvino, richiamato dallo stesso Ranaulo, celebrava, nell’esaltazione della leggerezza, la figura di Perseo che è l’unico capace di vincere Medusa perché Perseo vola coi suoi sandali alati né rivolge lo sguardo a quel volto che tutto pietrifica ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Per vincere Medusa, spiega Calvino, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, come i venti e le nuvole e spinge il suo sguardo solo su un’immagine evanescente come quella creata dallo scudo-specchio. Immagine transitoria e mutante. Immagine che non si fermerà mai, non diventerà né un modello né un simulacro né una metafora. Per Calvino questa leggerezza che vince tatticamente la pietra è propria della scienza, della filosofia e delle arti che attraverso lo specchio di un mondo immaginato possono creare il metodo per sconfiggere, faticosamente, la durezza apparentemente inamovibile del dato: l’apparente irreversibilità del reale è sconfitta dalla capacità di immaginare un’alternativa che si fonda sul valore del divenire, del transitorio, del fugace. Il laboratorio della creatività ha questa funzione sociale e pertanto, per Beuys, ha una natura inevitabilmente politica poiché é l creazione di un altro mondo.
Light Flowers, dunque, sono forme della mutazione. E in tal senso bisogna ricordare anche altri lavori già metamorfici di Appicciafuoco, come le sue montagne su “fogli” di terracotta che dissimulano la leggerezza della carta su tavole di argilla. Ma ora, in quanto forme connesse della mutazione le macchine ecologiche dei cactus sono più decisamente al di là delle metafore estetiche pur essendo, come la ginestra, “oggetti” anche attraenti. In realtà sono nuove creature: presenze, invece di rappresentazione. Qui, in maniera originale, la ricerca di Appicciafuoco che ha attraversato metodi e tecniche antiche e recenti, incontra un altro tipo di ricerca che Jean Hauser ha chiamato Art Biotech (Art Biotech, Clueb 2007). La bioarte, più propriamente, si concentra su processi autopietici come transgenesi, colture di cellule e tessuti, neurofisologia, sintesi di sequenze di DNA… Light Flowers colgono, invece, questi processi del mondo vivente nel mondo delle materie trovate, e restituite in maniera antiespressiva, connesse da un “filo invisibile” con la pila del Sole che alimenta la vita sulla Terra.
La bioarte sposta dal silicio al carbonio, dal computer a sistemi di connessione biotecnologica, i processi connettivi che abbiamo sperimentato e sperimentiamo attraverso la cultura digitale. Sposta o meglio allarga i valori propri della cultura digitale sul campo che solitamente definiamo “natura”. La bioarte è produzione di presenza, appunto, in mutamento. Ed è proprio questo il punto in cui i Light Flowers si incontrano con i processi autopietici della bioarte: là dove la metafora viene meno, infatti, la presenza concreta, differente e mutante, si rivela con tutta la sua carica progettuale alternativa.